Tra identità, ritorni, Medio Oriente e futuro

“La mia identità è cresciuta nel tempo.e alle metriche di business, con governance solida e pratica. Oggi mi sento romano quanto mi sento parte del Mediterraneo. Le differenze si sono attenuate: mi considero un ponte, più che un appartenente esclusivo a un solo luogo.”

Identità: cosa significa essere italiano, siriano, libanese e romano allo stesso tempo?
La mia identità è cresciuta nel tempo. Sono italiano, certo, scrivo in italiano, il mio impegno culturale resta legato all’Italia. Ma i miei figli sono libanesi e siriani, e io stesso ho vissuto oltre vent’anni tra Siria e Libano. Quelle terre sono diventate parte di me: non solo per ragioni familiari, ma perché lì ho costruito un pezzo enorme della mia vita. Oggi mi sento romano quanto mi sento parte del Mediterraneo. Le differenze si sono attenuate: mi considero un ponte, più che un appartenente esclusivo a un solo luogo.

Roma e Centocelle: cosa hai trovato tornando dopo tanti anni tra Libano e Siria?
Il ritorno non è stato un colpo secco: è avvenuto gradualmente. Oggi vivo a Centocelle, un quartiere incredibilmente esposto alla contaminazione culturale. Sotto casa sento parlare spesso più arabo che italiano. Non è una scelta romantica o nostalgica del Libano: è successo quasi per caso, ma ha reso il rientro più naturale. Roma è cambiata e non è più la città che ho lasciato, ma allo stesso tempo io sono cambiato ancora di più.

Che differenze hai percepito tra la Roma di allora e la Roma che hai ritrovato?
Roma oggi è più multiculturale, ma anche più polarizzata. Alcune zone restano molto “provinciali”, altre invece sono veri microcosmi globali. La Roma che ho ritrovato dopo anni in contesti complessi mi è sembrata incredibilmente semplice su certi aspetti e sorprendentemente rigida su altri. Tornare qui significa convivere con un ritmo diverso, ma anche riscoprire una normalità che nella mia vita levantina non potevo permettermi.

Come immagini la tua carriera nei prossimi anni?
L’AI non è un’onda passeggera: sta diventando l’infrastruttura di come le aziende pensano, decidono e operano. Il mio progetto è essere tra coloro che rendono questa transizione affidabile e produttiva: portare l’AI fuori dai POC, dentro ai processi e alle metriche di business, con governance solida e pratica.

La Svizzera è il luogo giusto: alta intensità di R&D, startup e scale-up, e cultura lavorativa di qualità. Qui voglio crescere in ruoli di guida, tra consulenza e advisory, per aiutare le organizzazioni a definire roadmap chiare, misurare l’impatto e costruire capacità interne. In parallelo, continuerò a investire su formazione avanzata e thought leadership.

Com’è stata la tua relazione con la comunità italiana in Libano?
Molto variegata. Ho conosciuto italiani splendidi, profondamente immersi nel paese e rispettosi del contesto. Ma ho visto anche expat che vivevano in una bolla, sfruttando privilegi enormi e ignorando il tessuto sociale. Non esiste “la comunità italiana”: esistono persone con approcci completamente diversi, da chi lavora seriamente sul campo a chi vive la missione estera come un’esperienza di lusso. Personalmente, le amicizie più profonde le ho trovate raramente tra i libanesi e raramente tra gli italiani: ho selezionato poche relazioni vere.

Quali competenze ti hanno permesso di vivere e lavorare nel contesto siro-libanese?
Flessibilità, apertura e adattamento. In paesi come Siria e Libano l’imprevisto è quotidiano: se affronti quei contesti con rigidità mentale sei destinato a fallire. Ho imparato a rivedere continuamente le mie certezze. E poi la lingua: l’arabo ti costringe a un processo di apprendimento continuo. Infine, la resilienza: dopo aver attraversato guerre, crisi, blackout, embargo, sviluppi una diversa scala delle priorità. L’Europa, e Roma in particolare, mi sembrano oggi molto più semplici da navigare.

Come si è trasformato il tuo sguardo “orientalista” dopo gli anni vissuti sul campo?
Sono partito da un immaginario fortemente orientalista, come molti studenti europei degli anni ’90. Ma vivere in Siria e in Libano, entrare nella quotidianità reale, ha demolito quel paradigma. Ho scoperto che gli “altri” non sono così diversi: le aspirazioni, i timori, le dinamiche familiari sono le stesse, solo declinate in altri contesti. La mia prospettiva oggi è ibrida: non più occidentale che guarda a Est, ma un osservatore che ha interiorizzato entrambi i mondi.

Oggi dove ti vedi: tra ricerca, divulgazione e futuro professionale?
Sto lasciando gradualmente la produzione giornalistica quotidiana per dedicarmi alla ricerca, all’insegnamento e alla divulgazione. Sto lavorando a un progetto sulle migrazioni clandestine dalla Siria verso l’Italia, e se verrà finanziato dall’Unione Europea sarà una svolta importante. Continuo a viaggiare tra Roma, Beirut e Damasco: non ho chiuso con il Medio Oriente, ma oggi ho bisogno di una base stabile e di un lavoro che guardi al lungo periodo. E continuo a farmi domande: è questo il modo migliore per restare vivi intellettualmente.

Quali consigli daresti a chi vuole intraprendere una carriera in Medio Oriente?
Il primo consiglio è semplice ma spesso ignorato: informarsi davvero. Capire la storia della regione, le differenze interne, il contesto politico e sociale. Non basta aver visto Dubai per dire di conoscere il Medio Oriente: Siria, Libano, Iraq, Giordania… sono mondi completamente diversi.

Il secondo è studiare la lingua. Non per forza per diventare arabofoni perfetti, ma perché senza l’arabo puoi muoverti, sì, ma resti in superficie. L’arabo richiede anni, pazienza, umiltà. E soprattutto richiede esposizione reale, non solo app o corsi online.

Il terzo è mettere in discussione se stessi. Chi arriva con troppe certezze, con una mentalità rigida o con l’idea di applicare schemi europei “così come sono”, è destinato a rompersi subito contro la complessità locale. Apertura, flessibilità e curiosità devono diventare competenze quotidiane.

Infine, serve il coraggio di farsi domande. Non esistono percorsi lineari nel Medio Oriente. Ma chi accetta la complessità, chi è disposto a imparare e a rivedere il proprio sguardo, può vivere un’esperienza professionale e umana trasformativa.

Alberto Vaccari

Se pensi che anche la tua storia meriti di essere raccontata, lascia un commento sul profilo Linkedin e ti contatteremo!

Guarda altre storie